Avete presente quel momento in cui si ha in famiglia un neonato o un bimbo piccolo, sotto i 2 anni di età?Se siete stati genitori, vi ricordate quel tipo di stanchezza, nel stargli appresso giorno e notte?Il senso forte di responsabilità verso un esserino la cui sopravvivenza dipendeva solo da voi?Avete ancora in mente la "nebbia" che vi pervadeva dopo tante notti insonni?La stanchezza emotiva nel non riuscire a decifrare i pianti prolungati e i comportamenti anomali del bimbo?La vostra identità di persona vacillare nel non avere più tempo ed energie da dedicare a voi stessi?Ecco. Provate ora a moltiplicare quel periodo per due, per cinque, per dieci, per tutta la vita.E avrete più o meno un'idea di cosa significhi accompagnare un figlio con disabilità nella crescita.A meno che...A meno che qualcuno intorno non si impegni ad aiutare. Non qualche manciata di ore sparse.No, aiutare nel costruire un vero sistema di supporto perché i genitori (...e le mamme, soprattutto), possano essere sostituite in qualunque momento e per qualsiasi incombenza: il mangiare, l'addormentarsi, fare la doccia, tagliare i capelli, fare una visita medica, camminare in montagna, nuotare in piscina, occupare pienamente le giornate.Solo così si potrà riprendere a respirare, a lavorare serenamente ogni giorno, a guardare al futuro con fiducia.ARIA esiste per questo. Proviamoci, insieme.
Stamattina ho letto per caso questo proverbio ceco:“Imparate una nuova lingua e avrete una nuova anima.”Ho pensato a quante “nuove anime” costruiamo nel vivere accanto ad una persona con disabilità.Non si tratta certo di imparare l’inglese, l’arabo o il cinese.Le “lingue” che riguardano l’essere umano possono essere tante e diverse.Quelle che riguardano le persone con disabilità sono ancora più numerose e sofisticate.Perché, quando per vari tipi di difficoltà viene meno il linguaggio verbale, si è obbligati a trovare altri modi per comunicare e per mettersi in relazione.Ci sono linguaggi codificati come il Braille, la lingua dei segni o la comunicazione aumentativa per immagini. Ma a volte non bastano. Ed ecco che si costruisce una possibilità di partecipazione tramite lo sguardo, tramite un tocco, tramite i respiri.E poi c’è il linguaggio più universale e meraviglioso di tutti - quello del cuore - che ci fa stare insieme, ci fa comprendere, ci fa prendere decisioni tramite un sentire ed una connessione profonda.Questo allenamento al rendere possibile lo scambio e la relazione anche in presenza di tanti ostacoli, ci regala la possibilità di diventare attenti, aperti, sensibili e disponibili a supportare chiunque desideri comunicare.Ci rende capaci di essere “poliglotti”, di conoscere e “parlare” ogni linguaggio utile ad ogni essere umano per poter esprimere sé stesso, in ogni momento, in qualsiasi modo.
Dopo interminabili giorni di grigio e pioggia, questa mattina il cielo si è rischiarato, permettendo al sole caldo e luminoso di splendere e far brillare i meravigliosi colori dell’autunno.La sensazione che ho avuto è stata di conforto, parola che descrive un senso di sollievo e ristoro fisico.Lo spuntare del sole mi ha fatto pensare alle mamme della nostra Associazione: a quante volte arrivano al loro incontro settimanale con grandi pesi, rabbie, tristezze, difficoltà.E a come poi tornano a casa più leggere e con il sorriso.Come il sole dopo la pioggia, anche la presenza delle mamme ha a che fare con il conforto.Sentirsi profondamente accolte e capite. Posare le fatiche nell’abbraccio di chi vive una quotidianità simile. Condividere i problemi, ma soprattutto generare insieme delle soluzioni.Ricevere parole “giuste”, che provengono dal cuore di “chi ben sa”.Le mamme che si tengono per mano, portano una luce rara e preziosa.
Nel calcio, quando l’arbitro estrae il cartellino rosso, Il giocatore deve lasciare immediatamente il campo da gioco senza la possibilità di essere sostituito.Nella nostra esistenza, nel nostro ruolo di genitori, nel nostro compito di cura verso un figlio con disabilità, quante volte la vita tira fuori un cartellino rosso e ci obbliga ad assentarci dal nostro “terreno di gioco”?Quante volte accadono imprevisti, emergenze, impegni inaspettati che dobbiamo affrontare senza poterci tirare indietro? E in tali casi: chi ci sostituisce?L’essere umano ha questa particolarità: spesso non si decide a fare le cose finché non è obbligato da un evento, da una scadenza.E così noi genitori – per solitudine, per stanchezza, per difficoltà economiche, per assenza di operatori stabili in cui riporre fiducia, per mille altri motivi - ci accolliamo, giorno dopo giorno, il nostro compito di cura. Senza costruire un’alternativa, senza attuare un concreto progetto di vita per nostro figlio che possa non comprenderci.Fino a quando la vita ci chiede di essere obbligatoriamente e simultaneamente in due posti differenti, sbattendo violentemente contro tale impossibilità.Con il cuore, dunque, a partire dalla nostra personale esperienza, ecco cosa consigliamo: fin da piccoli, anche in presenza di disabilità complesse, abituate i vostri figli a cavarsela senza di voi.Abituateli a trascorrere del tempo con altre persone, a mangiare con altri, ad addormentarsi senza la vostra presenza, a stare in altre case.Sappiamo quanta fatica costa. Quanti sforzi emotivi necessitano. Quante energie si spendono.Ma è un tassello fondamentale per fare in modo che, quando si deve - o ci si vuole – dedicare ad altro, vi sia la possibilità di farlo con serenità.ARIA esiste proprio per esservi accanto e per costruire insieme questa opportunità.
La scorsa settimana ho partecipato ad un convegno in cui si parlava di disabilità, di progetto di vita, di adultità, di autonomia.In molti degli interventi ascoltati, c’era una frase ricorrente:“Molte volte sono i genitori che fanno resistenza, che non riescono a lasciar andare”.Mi ha colpita la ripetizione frequente di questa affermazione.Mi ha colpita come mamma, in generale. E come mamma di un giovane adulto con disabilità complessa.Mi ha colpita perché è vera. Ma anche perché a nessuno è venuto in mente di analizzare la realtà che ne sta alla base.I figli - tutti i figli, non solo quelli con disabilità - da quando nascono in poi vanno custoditi.Leggo dal dizionario CUSTODIRE:1. Sorvegliare qualcosa con attenzione e con cura, in modo che non subisca danni e si conservi intatto.2. Riferito a persone, averne cura, accudirli.Un neonato va sorvegliato, accudito, sfamato, cullato, consolato, ogni ora del giorno e della notte.Poi quel neonato cresce e diventa bambino, ragazzo, adulto.Man mano che cresce sviluppa competenze e autonomie, una tra tutte, la flessibilità e l’adattamento a stare e a frequentare persone diverse, contesti diversi.E così, già da molto piccoli, i bambini si possono lasciare in custodia a nonni, zii, amici, vicini di casa, baby-sitter. Possono frequentare, senza grosse fatiche, l’asilo nido, la ludoteca, laboratori di gruppo.Non è facile fidarsi ed affidarli, ma è qualcosa che avviene in tempi relativamente brevi e con naturalezza. E’ il bimbo stesso che chiede, che “ha fame” di esperienze, di novità, di sorprese.Sarà un cammino non sempre facile, quello di custodire i figli nel cuore, ma lasciarli andare liberi nella vita. Non facile, ma possibile e “normale”.Quando un figlio ha una disabilità, i processi e i meccanismi sono invece molto diversi.Sopraggiungono tanti aspetti che ostacolano questo naturale percorso.Ad esempio, elevati problemi di salute correlati a quella specifica disabilità. Oppure difficoltà a comunicare, relazionarsi, gestire stimoli e novità, dovuti alla propria neurodivergenza. O più banalmente, perché quel bambino ha bisogno di essere accudito e sorvegliato costantemente da persone qualificate, il cui costo ricade sulla famiglia e non ce lo si può permettere.Per questi e per tantissimi altri motivi, titolari di questa cura incessante continuano ad essere i genitori.A ciclo continuo, per giorni, mesi, anni, decenni.Finché “all’improvviso”, finito il ciclo scolastico, quando la persona con disabilità ha 18, 20, 22 anni, qualcuno ti dice che è tempo di pensare al futuro di tuo figlio. E’ tempo che diventi adulto e che possa staccarsi da te, vivere altrove, gestirsi con altri.Ma davvero?Adesso? Dopo tanti anni insieme, sempre insieme, comunque insieme, nell’indifferenza di tutti?Ora che abbiamo capito come si fa?Ora ci dobbiamo separare?Ora mi dite che devo lasciarlo andare?E andare, dove? Con chi? In che modo?Ecco. Forse qualcosa deve cambiare.Forse non va bene questo abbandono, questa solitudine in cui si è lasciati per anni.Forse non va bene che nessuno ci dica, fin dall’inizio, come costruire il futuro.Forse non va bene che nessuno ci accompagni, negli anni, favorendo ogni sostegno e supporto possibile per avere una vita “normale” di famiglia.Forse qualcuno ci deve essere a dirci che un modo c’è per custodire i nostri figli anche quando sono in mani altrui, dando loro ali libere e gioiose per volare verso la loro vita adulta.
“Si dice che a volte il destino sia una maschera per la colpa. Ci raccontiamo che le cose non potevano che andare in quella maniera per giustificare la nostra incapacità di farle andare in modo diverso.Per un genitore, però, è spesso vero il contrario: è la colpa a essere una maschera per il destino. La usiamo per ricondurre l’accaduta ad una ragione. La colpa è una consolazione, ci permette di allontanare l’idea spaventosa che le cose siano proprio ciò che sembrano, ci consente di credere a una causa scatenante, a una responsabilità specifica, al fatto che avremmo potuto fare una differenza nelle vite di chi amiamo, se solo…”(“La neve in fondo al mare” Matteo Bussola)Questa frase mi ha centrata come un pugno rabbioso in pieno viso.Mi ha sbattuto in faccia una certa verità.Ha fatto da specchio alle mie emozioni e ai miei pensieri più nascosti.Il senso di colpa è uno degli elementi più fedeli nella nostra vita. Non ci abbandona mai, non si allontana. Come un rumore di sottofondo a cui ad un certo punto ti abitui e ti sembra di non sentirlo più.Invece lui è sempre lì, sempre pronto, anche in una bella giornata di sole, anche al lavoro, anche in vacanza. Anche quando non ci si distacca un momento dalla cura del proprio figlio con disabilità. Quando si passano notti insonni, quando si fanno i salti mortali, quando si trascorre gran parte del proprio tempo libero alla ricerca di ciò che potrebbe aiutarlo di più, meglio, in modo più efficace.“Mi sento in colpa per non aver trovato mesi fa questo medico”.“Non mi do pace nel non aver capito prima quanto stesse male”.“Se fossi stata più forte, avrei ottenuto ciò che gli spettava di diritto”.“Se avessi passato più tempo con lei, sarebbe stata più serena”.“Se l’avessi abituato prima ad addormentarsi senza di me, ora sarebbe più facile”.Ogni momento è buono per sentirsi in colpa per non aver fatto abbastanza o nel modo giusto.La verità è che la vita accade. Nonostante noi. A prescindere da noi.La verità è che ciascun figlio è unico, diverso da tutti, nonostante sia etichettato con una diagnosi che riguarda tanti altri.La verità è che nessun medico, nessun terapista, nessun insegnante, nessun educatore avrà la capacità divinatoria di darci risposte certe, medicine miracolose, soluzioni veloci.La verità è che ci vuole tempo, tanto tempo per conoscere nostro figlio e poi per conoscere la sua disabilità. E solo quel tempo lungo, quelle migliaia di ore trascorse insieme, ci permetteranno di trovare delle buone strade da percorrere, nel rispetto della sua persona, dei suoi desideri, dei suoi bisogni.La verità è che la vita accade e non è sotto il nostro controllo. E mentre siamo intenti a cercare di tenere tutto a bada, ecco che tutto ci sfugge di nuovo.La verità è che vedere soffrire un figlio, vederlo faticare in ogni gesto quotidiano, è qualcosa di insopportabile. Che ti ammazza di frustrazione, di impotenza, di rabbie e di tristezze.Solo che quelle caratteristiche, quelle peculiarità, così come quella sofferenza, quella fatica, spesso non dipendono da noi. Sono state date ai nostri figli come bagaglio personale, tutto da scoprire, da vivere, da imparare, da inventare.Ecco che allora i nostri figli ci chiedono di cambiare sguardo su di loro: accettare l’inevitabilità di ciò che la vita ha loro dato; smetterla di torturarci con colpe che non abbiamo; accompagnarli, condividendo - ogni giorno - il meglio di ciò che possiamo fare insieme.Ecco che il mito del Titano Atlante, condannato da Zeus a reggere all’infinito il peso della volta celeste sulle spalle, ci fa interrogare: da una parte essere “soli a portare il peso del mondo”, caricarsi di ogni responsabilità e colpa (“se non io, chi altri?”); dall’altra constatare ogni mattina quanto sarà impossibile fare tutto e fare tutto da soli.E proprio dal Mito ci arriva una soluzione possibile: non stare schiacciati dalla solitudine e dalla necessità, ma trovare qualcuno che possa aiutarci nel nostro compito. Perdonarci di non essere Eroi e accettare aiuto.Così come per Atlante ci furono Ercole ed Atena, così per le nostre famiglie, ARIA c’è.
Luca ha 9 anni e scappa. Puoi portarlo fuori a passeggio solo trattenendogli la mano. Se provi a lasciargliela, se ti trova debole o distratto, corre via, non curante delle auto, dei pericoli. E così succede pure a casa. Serve tenere sempre tutto chiuso a chiave, sigillato. Porte, finestre, Velux. Tutto serrato per evitare evasioni incontrollate. Anche d'estate. E quel giorno, era proprio una rovente giornata estiva. La mamma, non sentendo più rumori, salì al piano di sopra e vide la Velux del bagno spalancata. Nonostante la regola del "tutto chiuso" sempre. In un attimo capì con terrore che Luca era riuscito ad aprire e di lì se n'era andato per tetti, con addosso solo un paio di mutande e le calze antiscivolo. Già...giornata rovente e calze antiscivolo indossate. Forse ciò che gli ha salvato la vita, permettendogli di camminare e correre sui tetti di tutto il quartiere senza scivolare. Infilandosi poi in casa di un ragazzo con la finestra aperta che, riavutosi dallo spavento procurato da un bambino che d'improvviso ti piomba dal cielo - senza saperti dire chi è, da dove viene - chiamò i Carabinieri. La mamma e il fratello maggiore, intanto, correvano per il quartiere alla sua ricerca, guidati solo dalla disperazione e dalla certezza di trovarlo precipitato dall'alto e morto. Lo videro invece qualche centinaio di metri più in là, chiuso nell'auto delle forze dell'ordine, al sicuro, sano e salvo. Elisa ha 5 anni, ma la notte piange. Si sveglia d'improvviso, a tutte le ore, e singhiozza in modo incontrollato. La mamma tenta di starle vicino, di calmarla, di farla riaddormentare. Ma nulla. Elisa urla senza sosta. La mamma le ha provate tutte, anche rivolgendosi a medici e terapisti. Analisi del comportamento, melatonina. Tutti tentativi vani. Facendosi guidare dall'istinto ha scoperto poi che l'unico modo per calmarla è tenersela addosso in fascia, tutta stretta e contenuta. E camminare, cantando ninna nanne. Finché la mamma passeggia e canta, per ore, tutte le notti, Elisa si calma. La mamma passeggia e canta con stanchezza e sfinimento. Con il sonno perso ogni notte. E con il dolore che le ha dato la comunicazione dell'amministratore di condominio: " Deve fare star zitta quella bambina. I vicini si sono lamentati. La notte deve esserci silenzio." "Già - pensa la mamma - sarebbe bello anche per me dormire la notte nel silenzio." Ma come? Erik ha 4 anni e non sa parlare. Gioca in solitudine, gli piacciono le macchinine. Ne studia ogni piccolo particolare. Le mette in fila. Per comunicare ti prende e ti trascina verso gli oggetti che desidera. Oppure, tenta di farti capire ciò che vuole. Ad esempio, quando desidera uscire, andare a passeggio, si avvicina alla porta d'ingresso e inizia a battere con insistenza. Non sempre è possibile andare subito. Magari devi finire un'incombenza domestica. O avere il tempo di vestirti. E lui intanto batte. Beninteso: non lo fa all'alba, di sera tardi, di notte. Capita solitamente nelle ore del pomeriggio. Ma comunque la vicina ha suonato il campanello: "Fate smettere quel bambino di battere, disturba." "È autistico, signora" - rispondono i genitori. Con il diritto sacrosanto di tutti a notti silenziose e riposanti. A poter guardare una serie TV o lavorare da casa senza colpi ripetuti sulla porta. Tenete conto che non sono bambini maleducati. Non sono genitori irrispettosi. È l'autismo. Serve tempo per comprenderlo, anche da parte delle mamme e dei papà. Serve tempo per mettere i bimbi nella condizione di poter comunicare disagi, malesseri, desideri, facendo così arretrare i comportamenti esplosivi. Perché tutti vorremmo una "casa dolce casa". Ma quando le case sono abitate dall'autismo, spesso tra le mura domestiche si vivono situazioni difficili e drammatiche. Sì, suonate il campanello. Ma per chiedere se hanno bisogno di aiuto. Di una commissione. Di mezz'ora di presenza per fare una doccia. Di 4 chiacchiere per sconfiggere la solitudine e distendere i nervi. Grazie se saprete comprendere ed esserci accanto. *storie vere con nomi di fantasia
L’essere umano è spinto continuamente dalla ricerca, dal desiderio, dai progetti e dai sogni che cerca di realizzare.Che sia l’amore, la famiglia, una determinata posizione professionale, la Fede.O qualcosa di molto concreto come un viaggio, una nuova esperienza, un vestito nuovo, un oggetto di arredo.Ciascuno di noi quotidianamente crea piccoli e grandi progetti, insegue piccoli e grandi desideri. Questo movimento continuo verso il futuro regala respiri, entusiasmi, forti emozioni, lunghi sguardi che nutrono la persona e producono energia vitale.Accade, a volte, che la vita invece si arresti di colpo e ci si trovi sommersi da così tante difficoltà ed emergenze, da sentirsi sprofondare nel buio di un abisso, senza luce e senza aria.Una disabilità grave, una malattia, un autismo severo: situazioni che schiacciano la persona e tutta la sua famiglia nel qui ed ora.Non “il qui e ora” luminoso e ricco di pienezza descritto dalla mindfulness, dallo yoga e da tante altre discipline del benessere.Quello pesante, fangoso, freddo e impregnato di solitudine che caratterizza invece le vite di tante nostre famiglie.Quando si è lì, così totalmente impegnati a risolvere problemi, a cercare soluzioni, a trovare il modo di sopravvivere ad una nuova giornata, lo sguardo rimane incollato a terra, senza più possibilità di sollevarsi. I pensieri si bloccano, senza più capacità di aprirsi al domani.La vita diventa una massa pesantissima da spostare avanti con fatica, che rischia di risucchiare ogni energia e spingere tutti sempre più in basso.Certo, una delle cose più importanti è prenderne coscienza, farsi aiutare per attivare ogni risorsa interna capace di far fronte all’emergenza.Ma a volte non basta. Perché le difficoltà sono troppo grandi e annullano ogni sforzo positivo.Servono persone intorno. Serve un intero “villaggio”.Qualcuno che si sieda accanto, ti guardi dritto negli occhi e ti domandi:“Fai lo sforzo di lasciare per un attimo sullo sfondo le fatiche. Pensa di poterti dilatare, di poter fare spazio, nella testa e nel cuore, a qualcosa di nuovo. E ora raccontami: cosa desideri per te e per la tua famiglia? Cosa vedi tra 1 anno, 5 anni, 10 anni, nel tuo futuro, nel futuro della tua famiglia, perché siate felici?”Una domanda inaspettata e difficilissima.A forza di giornate nere, ti fa paura anche solo l’idea di accedere ad un desiderio.La vita ti sta abituando a dover rinunciare continuamente a ciò che avevi programmato e immaginato.Ora ti si chiede di sognare in grande.Ed è al contempo, spaventoso e bellissimo.Una grande vertigine.Nelle lacrime che sgorgano libere, si sciolgono delusioni, rabbie, spaventi, pesi.E chi ti è accanto ti porge la mano:“Ci sarà il sole, nonostante la pioggia di questi vostri giorni.Tu raccontaci i tuoi sogni.Noi siamo qui, per poterli realizzare insieme.”
Cosa c'è di più piacevole, rilassante, facile, del fare una doccia?Fresca e rigenerante quando il caldo estivo soffoca.Calda e riposante quando si è intirizziti dal freddo.Profumata, calma, rasserenante.Insomma: un momento di puro benessere, alla portata di tutti, in qualsiasi momento.Beh...In realtà...Non proprio tutti.Non certo in qualsiasi momento.Per noi caregivers certo non è così.Non ci si può mettere in doccia se l'autismo fa arrampicare su mobili, davanzali, ringhiere, rischiando salti nel vuoto. Se la paralisi cerebrale crea difficoltà respiratorie e di deglutizione tali da portare a soffocamento.Se l'epilessia provoca cadute improvvise e impreviste, pericolose e drammatiche.Se, dunque, l'impegno della cura, dell'assistenza, della gestione delle emergenze è quotidiano e continuo.Quindi?I caregivers quando fanno la doccia?Non di certo quando ne avrebbero desiderio o bisogno.Non di certo sostando sotto al getto, insaponandosi con dolcezza, assaporando momenti calmi di crema vellutata per il corpo.Possono provarci, di gran corsa, alle 5.30 del mattino, quando - non sempre - ancora tutti dormono.Oppure a notte fonda, quando la messa a letto è compiuta.Ma - regalo dei regali - succede a volte che un amico o un familiare passi da casa.Che lo si possa mettere "di vedetta" e ci si possa regalare 10, meravigliosi e infiniti minuti, di acqua che scorre sulla pelle.
La scorsa settimana siamo stati qualche giorno al mare. Solitamente negli anni abbiamo scelto spiagge ampie e morbide, dove passeggiare agevolmente; fare castelli, gelati, torte e animaletti di sabbia; sdraiarsi sul terreno soffice.Questa volta invece abbiamo avuto l’occasione di stare in una casa affacciata direttamente sul mare. Un incanto di panorama, di perpetuo moto delle onde che culla, di brezza che entra da ogni finestra e regala respiri sereni.Dal giardinetto della casa c’era una discesa diretta al mare. Mare di scogliera.Il richiamo dell’acqua è stato irresistibile e, appena giunti, eravamo già a sguazzare. D’improvviso si sono sollevate le onde che ci hanno fatto perdere l’equilibrio e sbattere sugli scogli. Il bollettino medico, la prima sera, parlava di ginocchia sbucciate, caviglie graffiate, mani e piedi tagliati.La mattina seguente, di buon’ora, eravamo al bazar più vicino per comprare le scarpette da scoglio per tutti: di lì in poi è stato molto più agevole godersi le pozze d’acqua in mezzo alle rocce, osservare la natura, stare insieme in modo più rilassato.Più agevole, non vuol dire facile. Le alghe rendevano le pareti rocciose scivolose; il vento portava onde forti che non aspettavamo; le meduse arrivavano all’improvviso portate dalla corrente.Ma i piedi più saldi, senza tagli da rocce aguzze, senza spine di riccio conficcate, hanno fatto la differenza.E così - come sugli scogli, anche nella vita - tante, tantissime cose riescono più o meno bene a seconda di quanto si è attrezzati e preparati per affrontare quella situazione, quell’esperienza, quella sfida.Crescere un figlio con disabilità è una di queste: non basta l’istinto materno, non basta la volontà, non basta la determinazione, la pazienza, l’amore, quello infinito.Ogni giorno è una diversa sfida, che richiede conoscenze, competenze, gesti da imparare, emozioni da saper gestire, diritti da far valere.Nessun genitore nasce capace di usare un aspiratore per rimuovere le secrezioni che in gola bloccano il respiro o esperto nella gestione dei meltdowns delle persone autistiche o competente in epilessia, in comunicazione aumentativa, in apparecchi acustici, in alimentazione chetogenica, in dispositivi posturali e in chissà quante altre centinaia di cose necessarie agli aspetti quotidiani di salute, di benessere, di comunicazione, di apprendimento.Ma non solo.Con e per i propri figli con disabilità, si combattono continuamente battaglie per lo più silenziose agli occhi del mondo.In tanti luoghi e occasioni, le persone con disabilità non vengono ascoltate e prese in considerazione; in molti momenti dell’esistenza le pari opportunità sono un miraggio; ad ogni angolo di vita, qualche diritto evapora.Solo conoscendo a fondo le leggi, i regolamenti regionali, le convenzioni Asl, le norme dei Servizi sociali, le consuetudini, i tanti “abbiamo sempre fatto così”, si può attraversare la jungla delle carte scritte. Con timore, con frustrazione, a volte con rabbia feroce, ma soprattutto con tanto studio e competenza si riesce ad arrivare dietro alla cascata, in fondo all’arcobaleno, oltre la porta magica, per trovare il tesoro del diritto perduto.Nelle nostre famiglie, essere attrezzati, come con le scarpette sugli scogli, fa la differenza.
In un pomeriggio estivo qualunque, Francesco voleva guardare a ripetizione uno dei suoi video preferiti delle olimpiadi di nuoto: Martinenghi che vince la medaglia d’oro, un crescendo irresistibile di emozioni e di grida dei cronisti.La sorella, sul divano lì a fianco, tentava di leggere un avvincente romanzo, ma veniva interrotta continuamente: la gara dura appena 1 minuto e 13 secondi e ad ogni arrivo Francesco le porgeva il telecomando per farselo riavvolgere.Una, due, tre, dieci, venti volte.E poi un tentativo: “Franci, siediti qui che ti insegno a fare da solo.”Non che non si fosse mai provato. Una, due, dieci, venti volte la mamma aveva tentato di spiegargli come far ricominciare i video da capo. Fino a quel momento inutilmente.Ma in quell’afoso pomeriggio, succedeva invece qualcosa di straordinario.“Guarda bene come faccio, Franci: freccina e tasto grande.”E poi un urlo acutissimo di giubilo: “Ma bravoooo!!!”Francesco si era seduto accanto a lei, aveva fissato la sua mano con attenzione e immediatamente aveva copiato.Poi non si è fermato più per l’intero pomeriggio, facendo ripartire Martinenghi ancora e ancora e ancora, felice e orgoglioso della sua piccola, ma gigantesca conquista di autonomia.In casa per ore c’è stata gioia sfrenata e aria di festa, come se l’oro olimpico fosse toccato a Franci e Sofia, in una geniale, determinata e amorevole performance.Questo succede nella nostra famiglia e questo vedo accadere in tante altre famiglie come la nostra: apprendere cose nuove, raggiungere inattese autonomie, arrivare a particolari conquiste è così difficile, che ogni volta che accade, pare di essere saliti sul podio di un’olimpiade.La cosa straordinaria è che questo atteggiamento non riguarda solo la persona con disabilità.Si crea una speciale attitudine a guardare alla quotidianità: con occhio attento e sensibilità si accolgono con gioia i risultati e i successi di tutti, vivendo per contro gli errori e gli sbagli come semplici esperienze da cui imparare, splendide piattaforme da cui prendere una nuova rincorsa.Non che sia facile tollerare di continuo la frustrazione del non riuscire, del non raggiungere ciò che renderebbe la vita più facile e più serena.Ma in questa difficoltà, ecco che la disabilità offre la possibilità di guardare alla vita secondo una prospettiva diversa, assaporando con più profondità ogni piccolo avvenimento.
Nel weekend abbiamo partecipato a delle interessanti attività sensoriali in mezzo ad un bosco.Una di queste prevedeva di togliersi le scarpe e camminare su materiali naturali diversi.Nel farlo pensavo a quanto mi piace stare scalza, senza costrizioni di calzature, a contatto con il terreno.L'erba soffice, la sabbia morbida, i sassi tondi o quelli aguzzi, l'acqua calda o freddissima, la corteccia ruvida, la terra secca: non tutto è comodo e piacevole, ma regala un'esperienza intensa, che ti fa sentire vivo.Immersa in queste riflessioni ho pensato a quante volte nella vita ci capita di non avere la libertà dei "piedi scalzi", ma al contrario siamo in "scomode calzature": regole sociali, situazioni lontane dalla nostra essenza, persone che non ci corrispondono, che ci fanno sentire limitati, irrigiditi, a disagio.E - ancor più - ho pensato alle persone con disabilità.Ho pensato alle persone che funzionano in modo diverso, che hanno sensorialità diverse e molto complicate, un modo diverso di esprimersi, di apprendere, di reagire alle situazioni.Ho pensato a quanto il mondo intorno a loro sia spesso come una scomoda e rigida scarpa, magari di 2 numeri più piccola, all'interno della quale camminare diventa una fatica insopportabile.Ho pensato a quanto le persone intorno a loro siano spesso sassi aguzzi che respingono e feriscono.Ho pensato che sarebbe giusto non chiedere loro un continuo e difficile adattamento al mondo che abbiamo costruito secondo il "nostro" punto di vista. Sarebbe arricchente scambiarci le lenti con cui guardiamo la realtà, metterci gli uni nelle scarpe degli altri.O semplicemente lasciare spazi, tempi, affetti adeguati perché ciascuno possa trovare a piedi scalzi la libertà di essere sé stesso.
Cercando tra i sinonimi di rabbia, troviamo tante parole che la descrivono: furia, ira, sdegno, furore, collera, accanimento, bile, veleno, astio, rancore, violenza, forza incontrollata, disappunto, rammarico, dispiacere.Ma anche agitazione, irritazione, frustrazione, indignazione.La psicologia definisce la rabbia come una risposta naturale a situazioni percepite come minacciose o ingiuste, un forte segnale che ci indica che qualcosa non sta andando come ce lo aspettavamo.La rabbia ha una funzione arcaica che permette di “accendere” l’istinto di difendersi.Così come è una funzione sofisticata che ci permette di rispondere ad un’ingiustizia o alla percezione della violazione dei nostri diritti.Tanti modi per provare a descrivere una delle emozioni più diffuse e sperimentate da ciascuna persona, ma in modo molto più intenso e continuo là dov’è presente la disabilità.Perché?Perché ogni giorno, in molte situazioni, luoghi, esperienze, le persone con disabilità e le loro famiglie percepiscono di doversi proteggere e difendere: dai pregiudizi, da persone respingenti, da contesti che dovrebbero essere a tutela delle fragilità e che invece usano il loro potere arrogante proprio verso i più deboli.Vivono grandi frustrazioni nel sentirsi non volute, non considerate, non incluse: il ristorante dove la disabilità non entra, il treno dove la disabilità non sale, la scuola dove la classe va in gita e la disabilità rimane a casa. Vivono veri e propri “rigurgiti di bile” ogni volta che vengono trattati come “utenti”, “numeri”, “malati” o addirittura “oggetti”, senza per nulla considerare che un contributo economico tagliato, un servizio sospeso, un diritto negato, una soluzione non trovata, nelle nostre famiglie non generano solo rabbia, ma vere e proprie emergenze e conseguente disperazione.Sono quotidiane le telefonate e i messaggi dei genitori che ci raccontano la loro rabbia:“vorrei buttare una bomba”; “non so se urlare o piangere”; “ho male al fegato”; “mi viene da vomitare dal nervoso”; …E sono proprio di oggi le frasi di una mamma che ci ha chiamata arrabbiata: “E’ un bambino mica è una scimmia che in automatico gioca, sempre e comunque, anche in una stanza bollente alle 2 del pomeriggio!! È autistico, non una scimmia ammaestrata! Trattarlo così è un insulto alla sua intelligenza.”Vero, a volte pare che noi caregivers si abbia una reazione esagerata.A volte non ci vestiamo di parole gentili ed eleganti.A volte ci dimentichiamo che il mondo delle relazioni chiede il politically correct.Quando arriviamo a tanto è perché abbiamo già sorriso di cortesia tante volte, abbiamo ingoiato frustrazione a palate, abbiamo serrato la bocca in più di un’occasione.Vorrete scusarci dunque se quando abbiamo il fegato esploso, il cuore a pezzi e lo sfinimento dato dalle battaglie quotidiane, non appariamo mansueti e docili come agnellini.
La nascita di un figlio disabile o comunque il momento della diagnosi di disabilità, è qualcosa di dirompente all’interno di una famiglia. I genitori spesso ce lo descrivono con parole molto significative: crisi totale, baratro, buio, lutto, assenza di futuro. Le famiglie coese e armoniose riescono a farvi fronte meglio, grazie ad un miglior funzionamento socioemotivo, che permette - di fronte alla scoperta della disabilità - un buon adattamento psicologico e la capacità di riorganizzazione di ogni membro della famiglia. Al contrario, dove già lo stress e i conflitti sono alti, dove sono scarsi l'aiuto reciproco, l'unione e il sostegno emotivo, la crisi diventa esplosiva, causando separazioni e divorzi in numero molto maggiore rispetto alle famiglie in cui ci sono figli senza disabilità. È indubbio che madri e padri abbiano ruoli diversi e una diversa predisposizione alla cura incessante che richiede un figlio con disabilità. Le madri - come citano numerose ricerche - sono spesso sole nell'accudimento del proprio figlio, arrivando in molti casi a rinunciare alla propria vita personale e lavorativa. I padri invece sono più a rischio nello sviluppo di solidi legami affettivi con il figlio disabile, in quanto il loro ruolo nella cura è più marginale e più orientato all'esterno della famiglia, primo fra tutti per fronteggiare l’aspetto economico. I padri sembrano manifestare minori livelli di disponibilità, maggior difficoltà nel decifrare i segnali del proprio figlio e questo è tanto più consistente quanto più gravi sono le difficoltà presentate dal figlio disabile. Ma i papà sono presenze importanti e fondamentali, nel sostegno alla propria moglie/compagna, così come per il figlio con disabilità. Papà?! Raccontateci la vostra storia, il vostro punto di vista. In cosa vi sentite più portati? In cosa vi sentite di poter essere di aiuto? A quali compiti vi piace dedicarvi? Cosa, nel concreto, vi piace fare per/con vostro/a figlio/a? Vi sentite di supporto alla mamma?
Qualche anno fa un sondaggio del Daily Mail rivelava che, se solo il 63% delle donne intervistate ricordava il nome del primo ragazzo che aveva baciato, il 92% ricordava benissimo il primo paio di scarpe acquistato con i propri risparmi.Perché le donne amano così tanto le scarpe? In particolare, col tacco?Secondo lo storico francese Jean Servier, la scarpa rappresenterebbe una sorta di radice simbolica e sarebbe quindi correlata al concetto di indipendenza.Secondo alcuni psicologi le scarpe, ma in particolar modo le scarpe col tacco, rappresenterebbero un prolungamento di sé stesse e avrebbero quindi un riflesso importante sull’aumento dell'autostima.A quante mamme di figli con disabilità avete visto indossare delle scarpe col tacco?Forse non ci avete mai fatto caso, ma per poter gestire la disabilità di un figlio, i tacchi sono banditi.Con i tacchi non si può scattare come Usain Bolt nell'inseguire chi sta scappando, rischiando di finire sotto un'auto.Con i tacchi risulterebbe molto faticoso spingere una sedia a rotelle.In bilico sui tacchi sarebbe impossibile sollevare il proprio figlio per cambiarlo, vestirlo, lavarlo.Con i tacchi non è possibile camminare per chilometri, a passo spedito.A prima vista può sembrare un aspetto frivolo, di nessuna importanza.Ma nel concreto non è così.Fa parte delle tante limitazioni, delle rinunce, dei pezzi di sé che occorre abbandonare per dedicarsi al proprio figlio con disabilità.Una delle tante piccole cose che bisogna lasciare e che, ad un certo punto, rischiano di minare la propria identità, di percepirsi molto lontane dalla propria essenza.ARIA vorrebbe supportare le mamme nel continuare a dispensare cura e amore in modo illimitato, ma evitando di smarrirsi, conservando la possibilità di sentirsi bene con sé stesse, di avere qualche spazio per sé, di indossare - almeno in qualche occasione - le scarpe coi tacchi.
In questa estate fredda e piovosa, se si ha la fortuna di trovare mezzo raggio di sole, capita che l'autismo arrivi in spiaggia.Negli anni si sono collezionate tante esperienze difficili, si è fatto tantissimo lavoro per prendere le misure con una sensorialità molto diversa e molto complicata.La sabbia appiccicata addosso, il rumore del mare, il riverbero del sole sull'acqua, le grida dei bambini, la gente, la confusione.Un'infinità di stimoli da imparare a gestire contemporaneamente.Dopo tanti anni, eccoci in spiaggia in pace.L'avanti e indietro delle onde e un secchiello, sono sufficienti per trascorrere ore in serenità.I riflessi dell'acqua nel secchiello - in particolare - sono un'attrazione incredibile, da guardare, riguardare, per mezz'ore intere, da tutte le angolazioni.Così assorto, così concentrato, da essere convincente: ogni persona che passa sul bagnasciuga, nel vederlo guardare dentro il secchiello con così tanto interesse, si ferma per sbirciare, certa di scorgere una conchiglia preziosa, una medusa rara, un pesce particolare.E invece?Acqua. Solo acqua.La gente si guarda stupita, con viso interrogativo fissa Franci e poi prosegue.Chissà cosa penseranno...Chissà che domande si faranno...Chissà come commenteranno...Questo è l'autismo: persone con un funzionamento diverso, attratte da cose diverse, infastidite da cose diverse.Mondi spesso misteriosi, da scoprire e svelare avendo la voglia e la pazienza di stare ad osservare ed ascoltare."L'essenziale è invisibile agli occhi".Mai frase, con un secchiello in spiaggia, fu più azzeccata!
Prova a pensare a quanto sia semplice il gesto di aprire l'auto, sedersi, allacciare la cintura e partire.Se sei stato genitore, pensa a quante accortezze hai avuto per viaggiare con un bimbo piccolo: seggiolini, caldo e freddo, fame e sete, noia e sonno.Cosa succede quando si aggiungono le caratteristiche della disabilità?Il bimbo si slaccia continuamente la cintura e vaga pericolosamente nell'auto.Oppure non tollera un cambio di percorso e batte mani e testa sul finestrino, con urla e agitazione fortissima.O ancora cerca di scendere dall'auto in corsa, inventandosi ogni modo per bypassare i blocchi di sicurezza delle portiere.Per non parlare della richiesta di ascoltare la musica, magari la stessa per 20 volte di seguito, con continui tentativi per metterla a tutto volume.L'epilessia, invece, fa stare in allerta continua per una possibile crisi e la sua complicata gestione.Le difficoltà respiratorie, producono ansia nel prestare continua attenzione ai soffi, ai fischi, ai colpi di tosse.Se la persona è ipotonica, ha difficoltà nel gestire muscolarmente il proprio corpo, si è in pensiero ad ogni frenata, ad ogni curva più accentuata, perché il capo crolla in avanti, perché si perde la postura e gli arti rischiano di rimanere mal messi.E poi c'è la difficoltà di caricare passeggini adattati e carrozzine, obbligando a cambiare ed adattare l'automobile.In questi giorni alcune mamme ci hanno raccontato la loro esperienza, le loro difficoltà.Insieme stiamo provando a trovare strategie e soluzioni.Insieme proviamo a vincere le paure del viaggiare sole in auto con il proprio figlio, cosa tanto difficile quanto necessaria.Chi vuole condividere la propria esperienza?Chi ha strategie da suggerire?Commentate qui o scriveteci,sarà una condivisione importante!
AUDITORIUM BORELLI Piazza Borelli - Boves“UN VIAGGIO PER L'EUROPA TRA '700 E '900” Novus Trio Concerto di musica da cameraTrio con flauto, violoncello e pianoforteDmitri Shostakovich Cinque pezzi per due violini e pianoforte (arr. Levon Atovmyan)Preludio Gavotte Elegia Walzer Polka Charles-Edouard Lefebvre Ballade (à Monsier A.Hennebains)Andantino Bohuslav Martinu Trio per flauto, violoncello e pianofortePoco Allegretto Adagio Andante Joseph Haydn Trio in Re Hob.XV 16Allegro Andantino più tosto Allegretto Vivace assai Flauto: Sara Bondi Violoncello: Mariano Dapor Pianoforte: Lorenzo Martini Note di sala
Nella Gazzetta Ufficiale n. 111 del 14 maggio è stato pubblicato il DLgs 3 maggio 2024 n. 62, in attuazione della Legge delega 227/2021, che disciplina alcune importanti azioni riferite alla vita delle persone con disabilità.Il decreto era atteso dalle persone con disabilità e loro familiari da più di due anni, poiché si rivela cruciale per l’elaborazione e l’attuazione del progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato della persona con disabilità. Entrerà in vigore il 30 giugno 2024 con alcune sperimentazioni, mentre la maggior parte delle disposizioni saranno effettivamente applicabili dal 10 gennaio 2025.Il decreto va a modificare e disciplinare tre grandi aree: la condizione di disabilità, la valutazione di base e la valutazione multidimensionale, l’accomodamento ragionevole.
Ricordo bene quando a poche ore dalla nascita mi fu prospettata una condizione di alterazione genetica e di malattia: quel bimbo era "diverso" dagli altri - dicevano i dottori - e per la prima volta nella mia vita quella parola mi attraversava ferendomi come una lama e trapassandomi il cuore. Nei primi anni di Tommaso è toccato anche a me, come a tutte le mamme di bimbi con disabilità, attraversare quella tempesta di sentimenti contrastanti e di dolore. Le giornate scandite da bollettini medici, esami, ricoveri, valutazioni, riabilitazioni, farmaci. Diagnosi proclamate come sentenze: “non potrà, non farà, non riuscirà.” Ho amato mio figlio di un amore infinito sin dal primo istante, ma non ho timore a dire che spesso ho avuto la sensazione di aver creato un figlio “difettoso”. Volevo un bimbo che "funzionasse": per lui prima di tutto e per mettere a tacere il senso di colpa che provavo a causa di quel cromosoma in più.
Ho sempre pensato che da ogni difficoltà si possa trarre una preziosa risorsa, che dà senso all'esperienza andando al di là della sofferenza.Per questo ho dedicato anni di impegno e dedizione alla relazione di aiuto professionale e a quella con mia sorella Isabella, donna con sindrome di Down.Le famiglie con cui parlo ogni giorno si sentono sole, stanche, disilluse.Per parlare di cosa significa solitudine per me, voglio partire dalla fine della nostra storia: DALLA SPERANZA.A volte le famiglie la perdono, anche solo di vista.Condivido con te la nostra storia di siblings, tra "gioie e dolori", a cui la speranza offre ogni giorno una cornice di senso.