La scorsa settimana ho partecipato ad un convegno in cui si parlava di disabilità, di progetto di vita, di adultità, di autonomia.

In molti degli interventi ascoltati, c’era una frase ricorrente:

“Molte volte sono i genitori che fanno resistenza, che non riescono a lasciar andare”.

Mi ha colpita la ripetizione frequente di questa affermazione.

Mi ha colpita come mamma, in generale. E come mamma di un giovane adulto con disabilità complessa.

Mi ha colpita perché è vera. Ma anche perché a nessuno è venuto in mente di analizzare la realtà che ne sta alla base.

I figli - tutti i figli, non solo quelli con disabilità - da quando nascono in poi vanno custoditi.

Leggo dal dizionario CUSTODIRE:

1. Sorvegliare qualcosa con attenzione e con cura, in modo che non subisca danni e si conservi intatto.

2. Riferito a persone, averne cura, accudirli.


Un neonato va sorvegliato, accudito, sfamato, cullato, consolato, ogni ora del giorno e della notte.

Poi quel neonato cresce e diventa bambino, ragazzo, adulto.

Man mano che cresce sviluppa competenze e autonomie, una tra tutte, la flessibilità e l’adattamento a stare e a frequentare persone diverse, contesti diversi.

E così, già da molto piccoli, i bambini si possono lasciare in custodia a nonni, zii, amici, vicini di casa, baby-sitter. Possono frequentare, senza grosse fatiche, l’asilo nido, la ludoteca, laboratori di gruppo.

Non è facile fidarsi ed affidarli, ma è qualcosa che avviene in tempi relativamente brevi e con naturalezza. E’ il bimbo stesso che chiede, che “ha fame” di esperienze, di novità, di sorprese.

Sarà un cammino non sempre facile, quello di custodire i figli nel cuore, ma lasciarli andare liberi nella vita. Non facile, ma possibile e “normale”.


Quando un figlio ha una disabilità, i processi e i meccanismi sono invece molto diversi.

Sopraggiungono tanti aspetti che ostacolano questo naturale percorso.

Ad esempio, elevati problemi di salute correlati a quella specifica disabilità. Oppure difficoltà a comunicare, relazionarsi, gestire stimoli e novità, dovuti alla propria neurodivergenza. O più banalmente, perché quel bambino ha bisogno di essere accudito e sorvegliato costantemente da persone qualificate, il cui costo ricade sulla famiglia e non ce lo si può permettere.

Per questi e per tantissimi altri motivi, titolari di questa cura incessante continuano ad essere i genitori.

A ciclo continuo, per giorni, mesi, anni, decenni.

Finché “all’improvviso”, finito il ciclo scolastico, quando la persona con disabilità ha 18, 20, 22 anni, qualcuno ti dice che è tempo di pensare al futuro di tuo figlio. E’ tempo che diventi adulto e che possa staccarsi da te, vivere altrove, gestirsi con altri.

Ma davvero?

Adesso?

Dopo tanti anni insieme, sempre insieme, comunque insieme, nell’indifferenza di tutti?

Ora che abbiamo capito come si fa?

Ora ci dobbiamo separare?

Ora mi dite che devo lasciarlo andare?

E andare, dove? Con chi? In che modo?


Ecco. Forse qualcosa deve cambiare.

Forse non va bene questo abbandono, questa solitudine in cui si è lasciati per anni.

Forse non va bene che nessuno ci dica, fin dall’inizio, come costruire il futuro.

Forse non va bene che nessuno ci accompagni, negli anni, favorendo ogni sostegno e supporto possibile per avere una vita “normale” di famiglia.

Forse qualcuno ci deve essere a dirci che un modo c’è per custodire i nostri figli anche quando sono in mani altrui, dando loro ali libere e gioiose per volare verso la loro vita adulta.


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